Ancora false dichiarazioni in graduatorie ATA
Purtroppo è quasi diventato normale: bidelli scalano le graduatorie con titoli di studio falsi in quasi tutta Italia… ma ora anche con titoli falsi di servizio.
In Toscana un lavoratore, in occasione della presentazione della domanda di inserimento nella graduatoria provinciale, “avrebbe autocertificato, con dichiarazione sostitutiva oltre al possesso di alcuni titoli di studio, anche l’esistenza di titoli di servizio poi risultati non veritieri. Ed invero, le esperienze lavorative dichiarate, ovvero i servizi asseritamente prestati in qualità di collaboratore scolastico presso una scuola si sarebbero invece palesemente rivelate mai maturate all’esito delle attività di riscontro compiute dalla Guardia di Finanza”.
La posizione in graduatoria raggiunta con la falsa attestazione di servizio è valsa al collaboratore scolastico l’assunzione per una supplenza temporanea. La scuola, accertata l’insussistenza e quindi la falsità di tutti i titoli di servizio autocertificati dal collaboratore, ha provveduto a rettificare il punteggio attribuito in graduatoria, riducendolo.
Essendo stato il lavoratore sottoposto a indagini che avevano condotto a rilevare la non veridicità dei titoli di servizio dichiarati, è stata formulata la richiesta di rinvio a giudizio con imputazione dei delitti di cui all’art. 483 c.p. (Falsità ideologica commessa da privato in atto pubblico) e all’art. 640 cpv. c.p., n. 1 (Truffa aggravata a danno dello Stato o di ente pubblico).
Il collaboratore, asserisce la sua difesa, poteva vantare i requisiti di studio per essere inserito nelle graduatorie in questione. Inoltre, la prestazione lavorativa effettivamente svolta doveva considerarsi avvenuta in maniera soddisfacente, stante l’assenza a carico del collaboratore di provvedimenti disciplinari o richiami di alcun genere. La difesa riteneva, quindi, che il collaboratore avesse diritto alla retribuzione e ai contributi previdenziali ed assistenziali ai sensi dell’art. 36 della Costituzione, in quanto corrisposti a titolo di compenso per un’attività di fatto svolta regolarmente e correttamente.
La Corte dei Conti la pensa invece diversamente: l’azione messa in opera dal lavoratore costituisce danno erariale atteso che alla retribuzione percepita non corrisponde una prestazione adeguatamente commisurata e qualitativamente corrispondente alla professionalità richiesta. Pertanto, il possesso dei requisiti professionali dichiarati si pone come necessaria premessa per l’utile svolgimento della relativa attività, sicché la sua assenza determina integralmente il venir meno del sinallagma tra prestazione e retribuzione, con conseguente inapplicabilità alla fattispecie del principio della “compensatio lucri cum damno” e della normativa di cui all’art. 2126 del codice civile.
Gli Associati possono leggere la Sentenza n. 51/2023 Corte dei Conti, Sezione per la Toscana